venerdì 3 maggio 2013

EXPANDED VISIONS - "Rose is a rose is a rose is a rose - Omaggio a Gertrude Stein", di Hans-Hermann Koopmann


Non solo film su Cineclash. Era stata la solenne promessa da me fatta nel primo post pubblicato su questo blog. E tuttavia, finora, tale promessa non era stata onorata. 
L'occasione ha tardato a presentarsi, ma finalmente è giunta qualche giorno fa, quando nell'ambito del festival Onde e Vortici - tenutosi presso La Cascina di Capodimonte - ho avuto il piacere di vedere la videoinstallazione Rose is a rose is a rose is a rose - Omaggio a Gertude Stein, dell'artista tedesco Hans-Hermann Koopmann, il quale sembra rivolgerci attraverso il suo lavoro un invito assolutamente chiaro e inequivocabile: è giunto il momento di espandere le nostre visioni. E Cineclash prova ad accogliere la sfida partendo proprio da qui, da quest'opera così suggestiva e ricca di spunti di riflessione.

Inizio col dire che mi sembra riduttivo definire quest'opera come una videoinstallazione, dal momento che Koopmann mette in gioco una serie di linguaggi (dal video, alla fotografia, alla letteratura), i quali interagiscono tra loro senza che nessuno prenda il totale sopravvento sugli altri, ma apportando ciascuno il proprio contributo all'intessimento di un discorso complesso che finisce per insinuarsi in questioni profonde e fra loro interconnesse: lo statuto delle immagini, le molteplici relazioni fra immagine e testo, e le modalità attraverso cui si rende possibile la mediazione stessa di un'immagine. 


Nel video che scorre in loop, infatti, l'immagine si presenta ai nostri occhi rivelando quelle che sono le sue funzioni principali, la sua stratificazione interna potremmo dire. Una funzione plastica innanzitutto, materica, che emerge dal lento sprofondare di quattro rose (rose is a rose is a rose is a rose) all'interno di un recipiente pieno d'acqua: ciascuna rosa è legata a una pietra; ciascuna pietra trascina con sè verso il fondo una rosa, dando vita a un gioco di forze e resistenze che determina una sorta di suspense minima, tutta giocata sull'alternanza di attese e ripetizioni. 
Un'immagine, questa, che è colore, forma e movimento, e che sfrutta la potenza di questi tre elementi per assorbire completamente l'attenzione di chi guarda, stimolando nulla più di una totale implicazione all'interno di questa plasticità che non sembra richiedere delle immediate connessioni di senso.


C'è poi un altro livello dell'immagine, che si palesa al termine di questa prima sequenza appena descritta, e che ha a che fare con la presenza di Gertrude Stein, la quale non è richiamata solo nel gioco di rimandi tra le quattro rose che sprofondano nell'acqua e la citazione tratta dalla poesia Sacred Family che dà il titolo all'opera di Koopmann.
L'autore utilizza infatti delle immagini di repertorio che non esibiscono più - come le precedenti - dei valori plastici/estetici, ma una portata storica/culturale che mette in gioco un carico di memoria che è sedimentato in esse, e che rende facilmente valicabile la linea di confine che separa la dimensione pubblica (intellettuale, artistica) da quella privata di questo affascinante personaggio, restituendoci un ritratto di Gertrude Stein che  appare come il risultato di un processo di esfoliazione, il quale ci conduce verso un contatto intimo, quasi confidenziale, con questa figura che improvvisamente ci appare vicina e familiare, mentre il suono della sua voce ipnotica che accompagna le immagini sembra dettare i tempi di questo contatto, il quale trova una sua naturale organicità nel ritmo scandito dalla successione delle parole pronunciate. 
La presenza della Stein, da visiva, si fa dunque audiovisiva, e alimenta un gioco di rimandi che potremmo definire circolare. Non solo la sua voce interagisce nel modo illustrato con le immagini che scorrono sullo schermo, ma il discorso pronunciato è esso stesso un discorso sull'immagine - il suo elogio di Matisse - carico di parole evocative e immaginifiche. 
Molto più ovvio, e anche molto più facile e scontato, sarebbe risultato inserire il testo della poesia Sacred Family, conferendo così alla parola il compito di "spiegare" l'immagine, attraverso quel processo che è stato definito da Roland Barthes come ancoraggio. Koopmann sfugge invece a questo pericolo, e con un ben calibrato cortocircuito ci consente di partire dalle immagini per tornare alle immagini, lasciando che il testo - e il suono delle parole che lo compongono - possa interagire con esse senza la pretesa di chiuderle in una rigida griglia di significati.


C'è poi una parte assolutamente fisica che, insieme a una bacheca sulla quale sono raccolti alcuni frame estrapolati dal video e stampati, va a completare questa installazione. Si tratta del recipiente pieno d'acqua all'interno del quale possiamo vedere le quattro rose legate alle pietre (in tedesco stein... il gioco di rimandi continua e si materializza). 
Gli elementi naturali messi in gioco da Koopmann nel video (i fiori, le pietre e l'acqua) sono dunque presenti anche nella loro consistenza fisica. Sono presenti come l'esito di un processo che è quello mostrato nel video. 
Le rose immerse nell'acqua sono illuminate da un faretto. La luce attraversa l'acqua e va ad impressionare sul bordo semitrasparente del recipiente un'immagine - instabile, effimera, non fissata -  della rosa, dando vita a un ulteriore ed estemporaneo gioco di luci, ombre e forme che risulta assolutamente suggestivo.


Rose is a rose is a rose is rose è un'installazione che difficilmente lascia indifferenti, perché è capace di celare dietro la semplicità tecnica che è alla base della sua realizzazione una notevole complessità discorsiva fatta di quei continui rimandi che ho tentato di mettere in luce. Non è un caso, infatti, se quest'opera ha saputo suscitare un vivo apprezzamento da parte del regista iraniano Abbas Kiarostami, il quale - trovandosi in Italia per la presentazione del suo ultimo film Qualcuno da amare - si è appositamente recato a Capodimonte per vedere il lavoro di Hans-Hermann Koopmann.  


Un lavoro perfettamente inscritto all'interno di un percorso artistico che continua a mostrare con assoluta chiarezza la propria linea di continuità interna, la quale scorre lungo i binari di un'indagine che - come ha evidenziato Silvia Bordini - è incentrata "sull'idea stessa di realtà naturale, tra organico e inorganico, tra simbolo e metafora, dissodando per così dire gli stereotipi tra arte e natura per proporre [...] un processo sensoriale diverso". Un'indagine, aggiungerei in conclusione, che condensa in sé la doppia anima di Koopmann. La sua formazione di biologo e il suo sguardo d'artista.


Hans-Hermann Koopmann e Abbas Kiarostami
(foto realizzata da Elisa Resegotti)

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