lunedì 8 aprile 2013

IN SALA - "Come un tuono", di Derek Cianfrance


È curioso, ma se avessi scritto questa recensione a caldo, appena uscito dalla sala dopo aver visto il film, il mio giudizio sarebbe stato decisamente meno positivo. Evidentemente Come un tuono necessita di qualche ora di decantazione; richiede allo spettatore di "dormirci su". 
Ed ecco che al risveglio l'effetto è stato sorprendente: alcuni tratti della storia erano sfumati, alcuni snodi narrativi - retorici - meno convincenti avevano perso di importanza, e alcune immagini si erano impresse nella mente con forza, scolpendo mediante il loro accostamento virtuale quelle che sono alcune sensazioni chiave che il film vuole imprimere nello spettatore. E se si pensa poi che Derek Cianfrance è stato allievo di Stan Brakhage, tutto ciò appare decisamente meno casuale, come se la scelta di optare per un cinema narrativo non avesse comportato la rinuncia ad un meticoloso lavoro sull'immagine che si anima sotto pelle e che - in forma attenuata, non più sperimentale - sembra riecheggiare quell'intensa esperienza formativa.

Come un tuono è una staffetta, nel corso della quale i personaggi si passano il testimone scandendo così il procedere del film lungo i binari di una struttura tripartita. 
Il primo protagonista è Luke "il bello" (magistralmente interpretato da Ryan Gosling): stuntman e spericolato motociclista prima, uomo maldisposto a rinunciare al suo diritto di paternità poi, criminale per necessità infine. 
Il secondo è Avery Gross (Bradley Cooper), un poliziotto osannato come eroe e difensore della giustizia, ma la cui bruciante carriera si tiene in piedi sul filo di una menzogna e di un ricatto.
Stacco. Quindici anni dopo... I figli di Luke e Avery, entrambi sedicenni, incrociano le loro strade e si ritrovano inevitabilmente costretti a riaprire i conti col passato dei loro genitori.

Con queste tre istantanee è possibile sintetizzare le principali linee narrative che attraversano il film. E tuttavia appare riduttivo considerare semplicemente tripartita questa struttura narrativa, dal momento che Cianfrance dissemina nel film una serie di elementi che sembrano stabilire delle relazioni binarie e creare dei nessi che non ci consentono mai di considerare del tutto chiusa una singola "parte". Pensiamo, per esempio, alla presenza dei due bambini che demarca evidentemente i contorni di una "specularità" che, per estensione, coinvolge i loro rispettivi genitori, e che è peraltro esplicitata (con un effetto ironico - forse - non del tutto volontario) nelle parole della psicologa da cui si reca Avery Gross nel tentativo di elaborare il trauma che ha fortemente segnato la sua vita.
Ma pensiamo anche, e soprattutto, a quel "doppio movimento" che conferisce una perfetta circolarità alla traiettoria narrativa del film: se nella prima parte assistiamo infatti al passaggio di Luke da una condizione nomade (dovuta al suo lavoro, allo spettacolo itinerante di cui è protagonista) a una sedentarietà indispensabile per adempiere ai suoi compiti di genitore, nel finale siamo testimoni della scelta di suo figlio di mettersi in viaggio in sella ad una moto per seguire le tracce del padre.
Tra questi due "movimenti", che sembrano avvenire lungo una linea sottile che separa ciò che è lecito da ciò che è etico, si colloca "la legge", che sembra lavorare nella parte centrale del film come un lunghissimo controcampo che ribalta i termini della questione, riportando l'immoralità entro i margini di un sistema che la deforma fino al punto da farla coincidere con "il giusto", per fondare addirittura la propria esistenza su questo perverso meccanismo di trasfigurazione.



Una trasfigurazione che si materializza sul piano visivo mediante il passaggio di testimone tra Luke e Avery: Luke scompare, vittima di una sorta di damnatio memoriae che giunge al punto da rendere il suo nome sconosciuto persino al figlio, fino al momento in cui la riappropriazione di un'immagine (una fotografia) che rivela l'altro volto dell'antieroe, quello occultato dal sistema dominante, non pone fine a questo processo di rimozione e rimette in discussione la collocazione del "giusto". Contemporaneamente alla demitizzazione di Luke - il quale era annunciato quasi come un mito vivente nell'incipit del film, mentre si preparava ad entrare in scena per dare vita al suo spericolato spettacolo - prende corpo la mitizzazione mediatica di Avery, come a voler individuare un'ulteriore traccia di (dis)continuità tra questi due personaggi che incrociano fisicamente le loro strade per un solo brevissimo istante. 


Questi sono i tratti della storia, del "discorso" direbbe qualcuno. Sotto di essi, però, si annida un'attenzione al dato visivo che veicola i contenuti e riconverte la loro portata comunicativa in forza espressiva. E in questo il merito va ripartito tra il regista Derek Cianfrance e il direttore della fotografia Sean Bobbitt, il quale è stato collaboratore tra gli altri di Steve McQueen sia in Hunger che in Shame, due film che rendono quasi indiscernibile il confine che separa il lavoro sull'immagine dal lavoro sul corpo dell'attore, riportando il tutto in una compenetrazione profonda che pone lo spettatore di fronte a un'unica materia che si plasma davanti ai suoi occhi inquadratura dopo inquadratura. 

Ebbene, anche in questo film - probabilmente non al pari dei due capolavori di Steve McQueen - si avverte a tratti un processo analogo, in particolare per quel che riguarda il personaggio di Luke, il cui corpo tatuato è presentato da subito, nell'intenso pianosequenza iniziale, come una vera e propria superficie di inscrizione, prima ancora che come un corpo in azione. 
Ma è possibile pensare anche al lavoro sinergico di fotografia e trucco che viene operato sul volto di Eva Mendes: un volto in trasformazione, provato e stanco, che porta in sé i segni del dolore, e che prima ancora di raccontarci qualcosa sul personaggio da lei interpretato ci restituisce il senso di un lavoro di de-iconizzazione dell'attrice stessa. 

C'è poi da segnalare anche un'attenzione quasi maniacale (soprattutto nella prima parte del film) alla scelta del punto di vista, con inquadrature che costantemente giocano a richiamare su di loro l'attenzione dello spettatore, stabilendo delle relazioni complesse tra soggetto guardante e oggetto guardato, e riportando così sul piano visivo la difficoltà nell'individuazione di una "soggettività" dominante, a proposito della quale abbiamo già analizzato le ripercussioni sul piano narrativo. Si pensi ai numerosi raccordi a comprensione ritardata o alle false soggettive che si ripetono nel corso del film,  tra le quali va segnalata senza dubbio quella che apre la sequenza del battesimo di Jason, il figlio di Luke.


Come un tuono è dunque un film che si lascia guardare e che gioca a posizionare l'attenzione dello spettatore su un livello differente rispetto a quello su cui sta effettivamente lavorando. Non è un film perfetto, soprattutto se si concentra l'attenzione sui minuti finali che tradiscono un'incapacità di portare a pieno compimento il lungo discorso avviato. E tuttavia, rispetto agli elementi che ho tentato di far emergere nel corso di questa riflessione, le imperfezioni presenti finiscono per divenire (quasi) trascurabili. 

Ritorno al punto di partenza: lasciar decantare... Questo è il segreto.



GUARDA UNA CLIP DEL FILM



GUARDA IL TRAILER DEL FILM






2 commenti:

  1. L'interpretazione che dai mi piace molto, l'ha fatto rivalutare un po' anche a me! Rimango convinto che con meno sbavature (retoriche) i momenti di illuminazione (iconici) sarebbero risaltati meglio, ma in effetti i giochi di punto di vista sono fantastici, e le dinamiche morali che metti in luce più raffinati di quanto inizialmente mi era parso... Solo su una cosa non sono d'accordo: Eva Mendes invecchiata è troppo caricata e caricaturale.

    RispondiElimina
  2. Grazie Lorenzo!
    Sai, ora che hai scritto di Eva Mendes "invecchiata" ho realizzato che mentre scrivevo quel passaggio della recensione mi venivano in mente (anche) le sue rughe in versione "quindici anni dopo", ma soprattutto il suo volto giovane struccato, con le occhiaie mai corrette che contribuiscono a rimarcare una "stanchezza" più naturale.

    RispondiElimina