domenica 21 aprile 2013

15° FEFF - Il cinema e la tortura. Riflessioni a partire da "National Security" di Chung Ji-Young


Il mio commento stavolta sarà piuttosto breve, e non rientrerà all'interno di una vera e propria recensione. Tuttavia, sentivo la necessità di abbozzare una riflessione a partire dal film appena visto al Far East Film Festival di Udine, National Security, del regista sud coreano Chung Ji-Young.
Una riflessione che, in realtà, non potrà che essere parziale e, per l'appunto, appena abbozzata, dal momento che va a toccare una questione complessa e stratificata che non può essere affrontata nello spazio di poche righe: la relazione tra il cinema e la tortura o, meglio, la possibilità per il cinema di restituire allo spettatore in modo "efficace" la tortura.

Senza nessuna forzatura, si può dire che il film di Chung Ji-Young, basato su una storia vera, mostri per 106 minuti le torture perpretate ai danni di Kim Geun-tae, un attivista democratico sud coreano che nel 1985 fu imprigionato per 22 giorni e quotidianamente torturato dagli aguzzini fedeli al governo di Doo-hwan, con l'accusa di aver avuto contatti con la Corea del Nord nel tentativo di organizzare una rivoluzione violenta finalizzata al sovvertimento del governo in carica.
Il problema che mi è parso di riscontrare in questo film che, lo preciso da subito, è stato accolto con un lunghissimo applauso in sala e si candida senza dubbio ad essere uno dei papabili vincitori della competizione, ha a che fare con quella che definirei un'eccessiva trasparenza della regia.
La constatazione non nasce da un'esigenza cinefila che pretenderebbe di rintracciare una qualche ricerca formale in ogni film. Il problema è un altro, e concerne un aspetto che potrei definire del tutto soggettivo: mi sono sentito profondamente distante dal film e dalla vicenda narrata. Potrei dire di essermi annoiato profondamente o, per usare termini diversi, di aver raggiunto molto presto un alto livello di assuefazione nei confronti di quanto mi veniva mostrato sullo schermo.
Parlando di trasparenza della regia, mi riferisco a quello che si potrebbe definire una stile "classico", basato sul campo-controcampo, sul dettaglio mostrato nel momento in cui le necessità narrative lo richiedono e su una gestione dei tempi filmici che non porta l'attenzione dello spettatore sulla durata in sé, ma che resta piuttosto incentrata sul tempo del racconto.
Ma in questo caso esiste un "racconto"? Tutto ciò si può raccontare?
Provo a lasciare aperta la domanda, interrompendo la mia riflessione con l'inserimento di un video che riporta alcune interviste ai componenti del cast. Il video in questione vi darà soprattutto la possibilità di vedere alcuni brevi frammenti del film che chiariranno meglio il senso della descrizione dello stile che ho tentato di restituire, dato che purtroppo al momento non sono reperibili su YouTube delle brevi sequenze del film.


Al termine della proiezione, riflettendo su quanto avevo appena visto, sono scattati quasi in automatico nella mia testa due confronti paralleli. Il primo è con il recente film di Kathryn Bigelow Zero Dark Thirty, la cui prima parte è incentrata proprio sulle torture messe in atto dagli agenti della CIA nei confronti di alcuni uomini sospettati di essere membri di Al Qaeda. In quel caso, il problema che riscontravo - sul piano stilistico - era lo stesso che rintraccio ora nel film di Chung Ji-Young, con la differenza che la Bigelow non si concentra esclusivamente su tale questione, nonostante le sequenze di tortura siano piuttosto lunghe e occupino una parte consistente del suo film. Appare tuttavia ovvio, in quel caso, che tali sequenze abbiano una finalità che può essere definita narrativa e che è riferibile alla formazione di un punto di vista morale che sia in grado di orientare le modalità di relazione tra lo spettatore e gli eventi narrati nel seguito del film (e che non ha comunque risparmiato alla Bigelow, come sempre avviene in questi casi, una lunga serie di accuse bilaterali, talvolta del tutto contrastanti tra loro).
Il secondo termine di confronto è invece Hunger, il film di Steve McQueen che riuscì a toccarmi profondamente sul piano emotivo. In questo caso le finalità risultano essere piuttosto prossime a quelle del cineasta coreano, dal momento che McQuenn porta sullo schermo le vicende di Bobby Sands, un membro dell'IRA che, imprigionato nel carcere di Maze, si battè per il riconoscimento dello statuto di prigionieri politici per tutti i detenuti nelle sue stesse condizioni.  In questo film, tuttavia, lo stile è tutt'altro che trasparente, e la scelta del regista non è tanto orientata a raccontare la vicenda del suo personaggio, ma a mettere in scena il processo di distruzione fisica e psicologica perpetrato nei suoi confronti, optando per uno stile che può essere definito prevalentemente performativo e solo in misura minore narrativo, e finalizzato a orientare di volta in volta l'attenzione dello spettatore sia sul contenuto delle singole inquadrature che su quella che potremmo definire come la loro articolazione spazio-temporale, basando così l'intensità di ogni singola sequenza non soltanto sulla brutalità delle azioni mostrate ma anche sulla loro durata (intesa in questo caso come la percezione soggettiva del trascorrere del tempo da parte dello spettatore).


Non voglio dire, al termine di questa riflessione, che esista un modo per mettere in scena la tortura al cinema. Mi interessava semplicemente mettere sul piatto alcuni dei fattori che possono risultare determinanti perché un film di questo genere arrivi (o non arrivi) allo spettatore. E non nego che mi piacerebbe se questo articolo parziale, dal taglio assolutamente soggettivo e contestabile su più fronti riuscisse a dar vita a una qualche forma di discussione su questo blog, ache sulla base di una serie di domande che vorrei porre a mo' di (in)conclusione: qual'è in questo caso la "funzione" dello spettatore? Gli viene chiesto di essere testimone e di reagire in terza persona? O si pensa di poterlo condurre davvero dentro lo stato di umiliazione e sofferenza fisica di un torturato? 

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