martedì 23 aprile 2013

15° FEFF - "New World", di Park Hoon-jung


Se due giorni fa mi trovavo a commentare The Gangster, sottolinenando la capacità del regista tailandese Kongkiat Khomsiri di scavare ogni immagine del suo film fino a far esplodere tutto il potenziale figurativo e culturale in esse celato, pagando il proprio tributo ai modelli di riferimento senza per questo scadere nella sterile reiterazione di codici preesistenti, oggi, riflettendo su New World del sud coreano Park Hoon-jung, mi trovo a dover constatare esattamente il contrario.
    
I rispettivi oggetti di interesse dei due film sembrano costituirsi come due perfette metafore di quelli che sono gli atteggiamenti dei due registi: se Khomsiri guardava alle gang emergenti, che nascono e si espandono nei bassifondi di Bangkok, e nel farlo si sporcava in prima persona le mani con la meteria del suo film, Hoon-jung  guarda invece ai gangster, quelli "già fatti", quelli penetrati fino al midollo nei grandi sistemi economici e finanziari, e nel farlo applica uno sguardo a distanza, accarezzando senza mai aggredire, contemplando un prodotto preconfezionato anziché scolpire inquadratura dopo inquadratura il proprio film.

Per troppo tempo New World ci mette di fronte al già visto: la morte di un vecchio boss, le tensioni crescenti tra due famiglie mafiose, fino allo scoppio di una guerra di successione che vede contrapposti l'uno all'altro il boss cinese Yo-jung e il boss coreano Lee Jong-gu. Non manca neppure la figura del poliziotto spietato, il commissario Kang, ossessionato dall'idea di una personale vittoria contro la mafia da ottenere a qualunque costo, anche mettendo a rischio la vita di Ja-sung, infiltrato nella banda di Yo-jung, e prolungando di continuo la sua missione fino al punto in cui la condizione dell'infiltrato diviene irreversibile, e Kang è costretto a distruggere i dati di Yong-ju dal database della polizia, distruggendo di fatto la sua vera identità.


Arriva un momento in questo film in cui ci accorgiamo che il vero protagonista è Yo-jung, il poliziotto infiltrato. Questo momento, tuttavia, giunge troppo tardi, quando il regista si è ormai affannato per più di un'ora e mezza (sulle due ore e un quarto complessive) a tracciare i contorni del suo ritratto edulcorante, a ripresentare una logica mafiosa dell'apparire che al cinema - ormai nel 2013- ha già giocato tutte le sue carte.
Troppo tardi, dicevamo. Sì, perché quando capiamo che le traiettorie del film convergono verso Yong-ju e verso la sua soluzione finale, non abbiamo più il tempo di accedere al suo dramma personale, non riusciamo a vivere sulla nostra pelle il patimento di chi si trova a dover scegliere tra continuare a collaborare con chi l'ha tradito e lo ha costretto a rinunciare per sempre alla sua vita, oppure vivere fino in fondo - e senza inganni - la sua "seconda identità", sfruttando la guerra tra i due boss per tentare una personale scalata ai vertici della criminalità organizzata.

Troppo tardi. Il treno ormai è passato, e neppure il fatto di optare per la scelta meno ovvia riesce a salvare il film da quella fastidiosa sensazione che si presenta puntuale quando tutto sembra già scritto. Tutto sembra immobile in questo film, tutto è codificato, tutto si muove su un livello di superficie, dove le immagini galleggiano in una perenne condizione di patinata leggerezza.
I codici non vengono piegati e stravolti, ma semplicemente reiterati, utilizzati come da manuale. Non ci si serve di un genere per portare a compimento un proprio discorso personale, ma si lascia che siano i codici stessi del genere a tracciare le linee guida del discorso.
La Sony Pictures ha già acquistato i diritti del film. Waiting for the american remake... Nessuna sopresa all'orizzonte.


GUARDA UNA CLIP DEL FILM



GUARDA IL TRAILER













Nessun commento:

Posta un commento