domenica 21 aprile 2013

15° FEFF - "The Gangster", di Kongkiat Khomsiri


The Gangster, del regista tailandese Kongkiat Khomsiri, è un film che scava dentro ogni inquadratura alla ricerca di una stratificazione che è (dovrebbe essere) propria di ogni immagine. Una ricerca continua di nuclei sedimentati che condensano al loro interno tracce di storia: l'intera storia di un genere cinematografico di cui il film è imbevuto; i frammenti di storia di un paese (la Thailandia) in un periodo compreso tra la fine degli anni '50 e l'inizio dei '60; la storia di quelle schegge di cultura americana che si sono piantate nella carne di una parte della popolazione tailandese, modificandone l'agire sociale (e anche quello criminale). 

Nella carne... e dove sennò? In quella carne in cui si piantano i coltelli prima e le pallottole poi, perché The Gangster ha davvero poco di mentale e molto di fisico, e propone con straordinaria lucidità un'estetica della violenza che il cinema occidentale contemporaneo non sa più maneggiare, se non nelle forme edulcorate tarantiniane o nell'inevitabile ricaduta trash che è tipica di molto cinema horror. Un'estetica che è stata invece recuperata (da anni ormai) nel cinema orientale, che l'ha fatta propria, e che continua a riproporla per stabilire con lo spettatore un rapporto non mediato... diretto... fatto di sensazioni che invadono direttamente il corpo e poi, solo in un secondo momento, sono elaborate coscientemente.  

Ma andiamo con ordine, partendo dalle immagini, da un montaggio di due istantanee.
Immagine n.1: il capitano della polizia, nemico giurato delle gang che insanguinano le strade di Bangkok, uccide delle farfalle e le fissa su una tavola di sughero, per poi incorniciarle e ammirarne la bellezza.
Immagine n.2: uno schizzo di sangue sporca l'obiettivo della macchina da presa nella scena in cui Jod (the gangster) si vendica di alcuni membri della banda di Pu che hanno umiliato e offeso due componenti della sua "famiglia".
La distanza e il contatto. Un binomio all'interno del quale è inscritto già il fallimento del capitano e la sua incapacità di comprendere un fenomeno che non può essere fissato, sezionato e guardato da lontano, perché il sangue ci tocca, viene verso di noi e non ci consente più di stabilire una distanza fisica con i corpi e le azioni che sono sullo schermo. Quello schermo non indica più una separazione, ma è una superficie di contatto.  
E non può che tornare alla mente Georges Didi-Huberman che con la sua "Parabola della falena" sembra offrirci una chiave di lettura che è quasi letterale: si può scegliere di osservare le farfalle (e le immagini) fissandole, come fa il capitano, oppure si può restare implicati nel loro continuo movimento, come ci richiede Khomsiri. L'immagine non va osservata ma aperta, per poterne testare la carnalità (ancora Didi-Huberman).


C'è poi un secondo livello di lettura che, come dicevo in apertura, sta ad indicare l'esistenza di un altro strato dell'immagine, collocato appena sotto quello che abbiamo appena descritto. A questa profondità stanno delle connessioni che potremmo definire "culturali". Ed ecco che Khomsiri si dimostra pronto a pagare tutti i suoi tributi: a Scorsese (e ai suoi bravi ragazzi), dal quale il regista sembra aver attinto non solo ad un livello tematico, ma anche - almeno in parte - a un livello stilistico. E anche al western, che è evocato nella sua forma classica dalla presenza di alcune locandine affisse per le strade di Bangkok, ma il cui "riutilizzo" è filtrato evidentemente dalla lezione di Peckimpah e Leone. 
Si stabilisce così un dialogo, o una vera e propria connessione indistricabile, tra le influenze occidentali che - sul piano formale - nutrono il film di Khomsiri, e quelle che - a livello diegetico - animano gli atteggiamenti di alcuni suoi personaggi, i quali agiscono sulla falsa riga di una personalissima mitografia che comprende Elvis Presley, James Dean e il Rock'n Roll.


Ritmo, azione, centralità dei corpi. Ma anche storie che si intrecciano, si congelano, si interrompono inaspettatamente e si riavvolgono su se stesse per stabilire delle intime connessioni tra passato e presente. Storie di (stra)ordinaria criminalità scandite dalla cornice di un (falso) documentario che cerca nel nostro tempo le (false) testimonianze dirette di un passato che chiede di essere guardato prima ancora che narrato.
Perché The Gangster vive di immagini. Anzi, The Gangster è un turbinio di immagini che ci riempie gli occhi e ci scuote i nervi. Ma è il cinema bellezza...e tu non puoi farci niente.


GUARDA IL TRAILER





6 commenti:

  1. Ah, ma quindi eri tu quello che si appuntava roba davanti a me? :D

    RispondiElimina
  2. Molto molto probabile. Confesso di essere sempre munito di blocco per gli appunti e penna... Spero solo di non averti disturbato :-)

    RispondiElimina
  3. Dato che eri in sala... Tu cosa ne pensi di questo film?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Nessun disturbo, figurati, mi hanno disturbato più che altro quelli che abbandonavano la sala e che, poco prima, li ritrovavi in ovazione per "Finding mr. Right". Mi ha colpito molto, purtroppo il cinema thailandese l'ho sempre snobbato dopo aver visto Ong Bank (non il mio genere) e altri film della specie muay thai. L'ho trovato violento fino al midollo, ma anche onesto nella narrazione di una realtà cruda, senza estetismi tarantiniani (anche se a livello di stile, il film è ineccepibile) o retorica. Purtroppo, i film devo rivederli più volte per poterne dare un giudizio "pertinente", però sicuramente questo su Nientepopcorn sarà un voto alto già da subito. Ho trovato interessante, soprattutto, l'americanizzazione dei personaggi, che appunto li porta al conflitto fraticida finale anziché continuare nella prassi dell'ammazza-il-nemico. Comunque, gran bel blog. Complimenti.

      Elimina
  4. Ti ringrazio davvero. Si fa quel che si può, e quindi gli apprezzamenti sono sempre graditi, e ancor più lo sono le possibilità di confronto. Io invece, da parte mia, finora ho un'idea piuttosto eterogenea del cinema tailandese che non mi consente di individuare al suo interno un "genere" che prediligo. Ho amato moltissimo "Tee Rak", di Sivaroj Kongsakul... ma siamo su un modello di cinema profondamente diverso rispetto a questo, e su tempi dilatatissimi che nulla hanno a che vedere con i ritmi vorticosi di "The Gangster"... http://www.sentieriselvaggi.it/33/42525/PESARO_47_-_Tee_Rak,_di_Sivaroj_Kongsakul_(concorso).htm

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ecco, questo parrebbe già più fare al caso mio, anche se - ripeto - "The gangster" l'ho apprezzato moltissimo. Grazie, me lo segno subito!

      Elimina