giovedì 15 novembre 2012

FESTIVAL DI ROMA - Seconda panoramica: Xiaogang, Clark, Sassi



Siamo giunti ormai alle settima giornata del Festival Internazionale del Film di Roma e bisogna ammettere che tardano ad arrivare delle vere e proprie visioni illuminanti. Tuttavia, si può forse registrare un leggero innalzamento del livello medio dei film in concorso rispetto alle precedenti edizioni.
Tenterò di gettare uno sguardo rapido su tre dei film visti in questi ultimi giorni, rinviando invece a due recensioni più approfondite per quel che concerne il film di Paul Verhoeven Steekstel (presentato nella sezione CinemaXXI) e il film di Michele Placido Le Guetteur (presentato Fuori Concorso).

Iniziamo dicendo qualcosa a proposito dell'attesissimo kolossal cinese in concorso, 1942 (titolo internazionale: Back to 1942), diretto dal regista Feng Xiaogang. Si tratta di un film impeccabile dal punto di vista visivo, nel quale si fa buon uso dell'enorme budget investito su questa mastodontica produzione, mirata a restituire un racconto di dimensioni epiche incentrato sull'esodo di milioni di cinesi dalla regione dell'Henan durante la Seconda Guerra Monidiale, a causa di una devastante carestia che colpì questa zona della Cina proprio mentre il paese era piegato dai bombardamenti giapponesi e dall'invasione del territorio nazionale.
Detto questo, il film di Xiaogang risente - a lungo andare - della mancata volontà da parte del regista di ancorare il proprio sguardo ad uno dei personaggi (ad esempio a quello del protagonista Fan, interpretato da Zhang Guoli), preferendo mantenere - da un punto di vista narrativo - una costante visione dall'alto, che talvolta allarga il proprio campo fino a includere le grandi decisioni operate dai vertici militari e politici, e talvolta opera invece delle rapide zoomate in avanti per andare a ricercare "sul campo" i drammatici effetti di quelle stesse scelte. Si avvicina e si allontana, dunque, senza variare però mai davvero l'angolazione del punto di vista, preferendo cioè sovrastare costantemente la Storia (quella con la "S" maiuscola) anziché  ricercare un "filtro ottico" nelle tante storie (quelle con la "s" minuscola) degli esuli. Insomma, non si avverte mai una reale mediazione dell'onniveggente sguardo autoriale.


Non si tratta di un errore, sia chiaro, ma di una scelta assolutamente consapevole che solo in quanto tale deve essere presa in considerazione ed  eventualmente criticata.
L'unico personaggio che giunge a farsi portatore di uno sguardo proprio è Theodore White, interpretato da Adrien Brody, che è - non a caso - un reporter di guerra, e dunque un individuo chiamato ad esercitare per professione il proprio sguardo. Nelle sue foto si fissano forse gli elementi più drammatici e umanamente intollerabili di tutta questa vicenda (si pensi ai cani che sbranano per strada i corpi senza vita degli esuli per nutrirsi delle loro interiora). Quello di White è dunque uno sguardo "qualitativo" che a tratti si sovrappone allo sguardo "quantitativo" dell'autore, ma che - a causa del ruolo assolutamente marginale riservato a questo personaggio - è impossibilitato ad incidere significativamente sul tipo di visione complessiva che questo film ci restituisce.
Forse è solo una semplice questione di gusto personale, lo ammetto, ma l'impressione è che il cinema si areni spesso nel tentativo di prendere la Storia "di petto", restituendo invece delle letture decisamente più efficaci e complesse quando riesce a tenere fuoricampo i grandi eventi e a trasformare una situazione più circoscritta in uno specchio attraverso il quale restituire il quadro storico allo spettatore. E' per questa mia convinzione, forse, che continuo a considerare Una giornata particolare di Ettore Scola il più bel film sul fascismo che sia mai stato realizzato.

Passerei ora rapidamente in rassegna Marfa Girl, film diretto da Larry Clark. Un'opera che avrebbe  tutte le carte in regola per risultare una delle più interessanti tra quelle in concorso, ma che da un certo momento in poi inizia a girare a vuoto su se stessa, senza riuscire a portare a compimento un discorso che sembrava poggiare su elementi - stilistici e tematici - assolutamente interessanti.
Larry Clark, autore che proviene dal mondo dell'arte, vorrebbe avvalersi del cinema per sfruttarne le potenzialità visive e immergere i suoi personaggi in un universo filmico privo di spessore narrativo, all'interno del quale la comunicazione passa esclusivamente attraverso il reciproco contatto fisico. 
E così, in quella terra di frontiera che è il Texas, il vero outsider non è l'uomo venuto da lontano, ma molto più concretamente l'uomo che non si adegua a questa "legge del corpo", quello che non è in grado di convivere pacificamente con la propria dimensione corporea, con la propria fisicità e, dunque, anche con la propria sessualità. Mi riferisco ovviamente a Tom, il poliziotto di frontiera bianco che per tutto il film si aggira nel quartiere in cui vive il gruppo di "ispanici" protagonisti del film, giocando sadicamente a tormentarli con le sue continue provocazioni.


Per buona parte del film, prima della violenta esplosione finale, Tom è forse l'unico personaggio che non si definisce attraverso il proprio corpo, bensì attraverso il proprio sguardo. Uno sguardo deviato e voyeuristico, finalizzato proprio alla compensazione dell'assenza di questa dimensione corporea, attraverso il quale si materializza il desiderio di possedere (termine la cui ambiguità gioca a nostro favore) un corpo.
Un atteggiamento, quello di Tom, che si colloca dunque al di fuori della regola su cui il film si tiene in piedi e che potrebbe essere ben sintetizzata dalla fulminea battuta della "ragazza di Marfa" (personaggio del quale il nome non è mai rivelato, perché lei sì che è solo un corpo e nient'altro) rivolta al poliziotto Rodrigo nel mezzo di una loro conversazione: "Ok, ora basta con la filosofia. Scopiamo?". A primo impatto, può sembrare una frase banale, ma la verità è che definisce esattamente quella che è la "norma" e sancisce, di conseguenza, una differenza all'interno di questo film.
C'è qualcosa che ad un certo punto scricchiola in questa impalcatura che sembra poter funzionare a meraviglia. Come se il regista esaurisse le sue possibilità e incappasse in una reiterazione dei propri intenti che trasforma il suo interessante progetto in uno sterile esercizio di stile. Come dire, l'immaginario di Clark non riesce a rimodellarsi e a riavvolgersi continuamente su se stesso come avviene, ad esempio, nel caso di un altro cineasta-artista come Steve McQueen, che pure "utilizza" il cinema con finalità simili a quelle del regista statunitense; e contemporaneamente il vuoto esistenziale con il quale Clark vorrebbe caratterizzare i propri personaggi finisce per innescare nello spettatore nulla di più di  un fastidioso senso di noia. Un risultato finale che non si pone dunque al pari degli ottimi presupposti iniziali.

Chiudiamo la nostra carrellata con un film presentato nella sezione "Prospettive Italia": Waves, di Corrado Sassi. Un film, anche questo, che si nutre di ottimi presupposti: tre uomini si trovano a condividere un lungo viaggio in mare, il cui scopo ufficiale è di dover consegnare una barca ad un armatore che li attende. Due di loro, Andrea (Francesco di Leva) e Riccardo (Andrea Vergoni) si conoscono da tempo e sanno qual'è il vero obiettivo del viaggio. Il terzo uomo invece, Gabriele (Luca Marinelli), è stato "adescato" da Andrea in un bar pochi giorni prima e ingaggiato per questo lavoro, con la sola richiesta di mettere a disposizione dell'equipaggio le competenze acquisite in un periodo di servizio sulla Amerigo Vespucci.


Il fastidioso atteggiamento di Andrea pone da subito lo spettatore nelle condizioni di capire che nei suoi intenti c'è del marcio, alimentando così un mistero che cresce nel corso del film, tra repentine (e non meglio motivate) richieste di cambi di rotta e la progettazione di una sosta non preventivata. Un altro imprevisto si aggiunge: i tre uomini sono costretti ad imbarcare una donna (Kathrin Resetarits) che, vedendoli avvicinarsi al proprio yacht, si lancia in mare e viene da loro raccolta, raccontando poi di essere fuggita perché incapace di sopportare ulteriormente gli atteggiamenti del proprio compagno, accanito frequentatore di casinò. 
Il film presenta duque degli ingredienti interessanti: uno spazio molto ristretto, personaggi con differenti gradi di consapevolezza su possibili dinamiche future e, infine, un evento che in parte ridefinisce i rapporti di forza tra di loro, inserendo un quarto personaggio incomodo e non meno misterioso degli altri tre.
La tensione che Sassi riesce sapientemente ad accumulare nella prima parte del film sembra dover esplodere nel momento in cui i quattro naviganti sbarcano su un'isola abitata soltanto da un ricco e (ancora una volta misteriosissimo) personaggio che vive in una elegante villa insieme ad un domestico, e che scopriremo essere un commerciante di diamanti affatto sconosciuto alla donna, la quale cela dentro di sé una verità ben diversa da quella raccontata ai tre protagonisti.
Questo sbarco cala repentinamente il film in un clima quasi surreale che, a tratti, sembra pervaso da atmosfere di ortesiana memoria (un riferimento che è - forse - esplicitato nell'altrimenti immotivata inquadratura di una piccola iguana poco prima del finale del film).
Ma proprio quando sembra che si siano aperte mille possibili - e affascinanti - strade verso cui condurre la conclusione della storia, ecco che assistiamo improvvisamente ad un'accelerazione finale che riconduce l'intero film sui binari di un banale realismo e sembra quasi abbandonarlo a se stesso in un inaspettato, ingiustificato e decisamente poco affascinante "retour à la raison".

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