venerdì 9 novembre 2012

IN SALA - "Reality", di Matteo Garrone


Poniamo una questione preliminare: Reality avrebbe potuto durare venti-venticinque minuti in meno e sarebbe forse risultato un film più solido, privo di alcuni momenti deboli che lo caratterizzano soprattutto nella seconda parte. Ciò nonostante, Matteo Garrone dimostra con questa sua ultima fatica che il suo cinema è una creatura assolutamente viva e per nulla appagata dal successo di Gomorra, un film che - lo si temeva, è inutile negarlo - con la sua altissima qualità avrebbe potuto eclissare e rendere inadeguato qualunque lavoro gli fosse seguito nella filmografia del regista romano.

E bene, Reality non tocca quelle vette, ma conferma senza alcuna ombra di dubbio un fatto che appare ormai innegabile: la forza del cinema di Matteo Garrone risiede in quella che, con una formula, potrei definire la "giustezza" dello sguardo, con la quale voglio intendere una capacità non comune di scarnificare il proprio oggetto, di ridurlo quasi all'osso, svuotandolo degli stereotipi e dei (plus)valori - positivi o negativi - che la società tende ad attribuirgli con eccessiva facilità e leggerezza. Uno svuotamento e una scarnificazione che passano anche attraverso quell'asciuttezza e quella sobrietà che sul piano stilistico contraddistinguono ormai da un quindicennio il cinema di questo regista.

Garrone riesce a operare in questo suo ultimo film uno straordinario ribaltamento, portando sullo schermo non tanto (anzi, per nulla direi) la tanto discussa - e spesso banalizzata - "spettacolarizzazione del reale", ma il suo perturbante opposto che potremmo chiamare la "realizzazione - o la concretizzazione - dello spettacolare". Detto in altri termini: non è la vita del protagonista Luciano (Aniello Arena) ad essere portata sul piccolo schermo per essere fagocitata dalle logiche televisive, ma sono quelle stesse logiche a invadere - in una forma ossessiva, malata - la sua vita quotidiana: la sorveglianza e l'esposizione mediatica (i due capisaldi del Grande Fratello) non sono mai reali, ma si insinuano quasi in maniera fantasmatica in ogni scelta e in ogni azione del protagonista.

Esattamente come avveniva in Gomorra, la Macchina (criminale in quel caso, spettacolare in questo) è tenuta in ombra per l'intero film, lasciando allo spettatore la sola possibilità di sperimentare i suoi effetti. Garrone si conferma regista interessato a raccontare un microcosmo, senza rivelare mai completamente il volto del grande mariottenista che dall'alto muove i fili dei suoi pupazzi, stabilendo le regole di un gioco spietato. Ed ecco allora che tornano, proprio come in Gomorra, le molte inquadrature in cui il secondo piano è lasciato fuori fuoco; inquadrature che negano allo spettatore qualunque possibilità di scrutare in profondità, costringendolo ad arrestare il proprio sguardo in superficie: un esempio di perfetta compenetrazione tra forma e contenuto, tra lo stile e la storia che attraverso quello stile deve necessariamente passare per esserci restituita in immagini.

Per centoquindici minuti guardiamo la realtà (diegetica ovviamente) mentre ci viene raccontata un'illusione. E allora l'intero film può essere letto anche come un lento rovesciamento del lunghissimo pianosequenza d'apertura, in cui suono e immagine dialogano e si fondono per illuderci di essere in un mondo da fiaba, quando ciò che stiamo vedendo è già la realtà straniante dei nostri protagonisti, che porta cucite addosso le tracce deformanti del grottesco. Una lunghissima inquadratura che sembra restare  in sospeso per tutti quei centoquindici minuti, salvo ritrovare poi solo nel finale la sua inquietante immagine speculare.


SEQUENZA AL MICROSCOPIO 

A proposito di consapevolezza stilistica...
Notate come Garrone filma l'irruzione di Enzo (Raffaele Ferrante), un cinico personaggio mediatico finalista di una precedente edizione del Grande Fratello, in una delle prime sequenze del film, quella del matrimonio.
Sembra quasi che il regista si sottometta ai "dettami" della regia televisiva, adottando uno sguardo "trasparente", e optando per delle inquadrature che ci restituiscono perfettamente il delirio di onnipotenza che anima questo personaggio e che è spropositatamente amplificato dall'accoglienza da star che gli viene riservata da tutti i presenti (un po' nello stile dei tronisti che fanno il loro ingresso in scena nelle trasmissioni di Maria De Filippi, per capirci).
Ma attenzione, pensate a cosa avviene subito dopo, quando Enzo esce di scena, dopo aver concesso a Luciano l'onore di una foto con lui. Avviene che Garrone ci mostra il ripetersi delle stesse battute, degli stessi atteggiamenti e delle stesse movenze sul palco allestito per Enzo ad un altro matrimonio, e lo fa filmando in questo caso i personaggi dalle loro spalle (un vero e proprio "back stage", potremmo dire)  con camera a spalla, facendo così percepire allo spettatore, con un "semplice" movimento traballante della macchina da presa, tutta l'inquietudine che si annida dietro la patina mediatica di questa situazione. Inquietudine che esploderà di lì a poco, ma che è già efficacemente preannunciata da questa sottile ed efficace scelta stilistica.



GUARDA IL TRAILER DEL FILM


Nessun commento:

Posta un commento