Mentre si avvia verso la conclusione questo primo weekend
festivaliero, mi pare una buona idea riportare in poche righe una mappatura di
alcuni dei primi film che ho avuto modo di vedere, oltre ovviamente ad Aku no kyoten di Takashi Miike sul quale
ho scritto una recensione a cui rimando.
Di sicuro, si tratta di un festival che stenta a decollare e che, almeno
per il momento, non ha offerto visioni illuminanti. Buoni film ce ne sono, ma
vere e proprie perle finora non se ne sono viste.
Le due opere migliori nelle quali mi sono imbattuto in
questi giorni sono due film fuori concorso: Mental,
del regista australiano P. J. Hogan e Populaire,
del francese Régis Roinsard.
Nel film di Hogan, il regista scava nella propria
autobiografia per riportare alla luce fatti e personaggi che appartengono alla
sua infanzia, ma con grande abilità riesce a trasformare il tutto in una
dirompente commedia surreale, strizzando di tanto in tanto l’occhio anche al
musical.
Roinsard, invece, realizza un film che ha il limite di non
proporre nulla di innovativo e, contemporaneamente, il pregio della piena
consapevolezza di questo stesso limite. Ciò che se ne ricava è un’opera
assolutamente equilibrata che cerca il proprio modello di riferimento nella
commedia sentimentale classica (guardando più oltreoceano che in casa propria)
per portare in scena la storia di Rose Pamphyle (Déborah Francois), una ragazza
proveniente dalla Bassa Normandia che, verso la fine degli anni '50, cerca la propria emancipazione attraverso
un impiego come dattilografa presso la compagnia assicurativa di Louis Echard
(Romain Duris) e finisce per partecipare – su sollecitazione dello stesso Louis
– ai campionati mondiali di dattilografia, destinati a eleggere la donna più
veloce del pianeta con la macchina da scrivere.
Decisamente meno convincente è invece il primo dei film italiani
in concorso Alì ha gli occhi azzurri.
Il film di Claudio Giovannesi manca forse di un pizzico di coraggio in più che
sarebbe stato necessario per portare sullo schermo le vicende di Nader, un
ragazzo nato in Italia da genitori egiziani che, quotidianamente, è alle prese
con una serie di problematiche legate alla sua appartenenza culturale. Nader sembra trainato da due forze opposte: da una parte l'ostinazione a volersi
sentire completamente italiano, dall’altra alcuni impedimenti imposti dai
genitori che lo fanno sentire intrappolato nell’impossibilità di compiere
autonomamente alcune scelte. Si dice troppo, forse, in questo film, nel quale
Giovannesi si appella troppo spesso ad una retorica cultural-religiosa che
passa attraverso i dialoghi per “spiegare” allo spettatore lo stato delle cose. Sarebbe stato necessario rischiare qualcosa in più, ed eliminare molte parole per “dare più voce” ai
volti e agli spazi.
Infine un accenno anche alla sezione CinemaXXI e al film A Walk in the Park di Amos Poe. Un'opera che si può definire come un viaggio psichedelico nella memoria del
protagonista, teso a riportare in vita il rapporto con la madre, oscillando tra
verità e finzione, ma appellandosi ai canoni narrativi del
documentario e ad un costante lavoro di trasfigurazione (o defigurazione) delle
immagini. Trasfigurazione che riesce a restituirci la viva sensazione di compiere un percorso
all’interno della mente del protagonista, completando con i suoi racconti
verbali le numerose sensazioni percepite a livello visivo. Un film interessante, dunque, ma che finisce per arenarsi sulla consapevolezza del proprio fascino, adagiandosi in maniera eccessiva su di esso e provocando così - nella seconda parte - un calo
d’interesse e di attenzione da parte dello spettatore, che rischia di esaurire troppo velocemente la propria curiosità.
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